venerdì, luglio 12, 2013

MAURICE WILSON Il visionario romantico che volle scalare l'Everest Con la forza di volontà

 

 Perché gli uomini scalano le montagne? Ce lo si è chiesto spesso. Le scalano, ha detto Mallory una volta, semplicemente perché stanno lì. 

Offrono all'uomo una sfida perpetua. In fondo Dio ha creato l'uomo in modo che fosse l'unico vivente capace di camminare eretto e di scervellarsi attorno al mistero delle stelle, quindi è naturale che nessuna sfida rimanga a lungo senza risposta. L'umano desiderio d'indagare l'incognito ha sempre spinto i più avventurosi lungo gli ardui sentieri dell'esplorazione. Che un uomo voglia scalare una montagna non richiede altra spiegazione se non il fatto che l'uomo è uomo e la montagna esiste.
C'è però un'altra forza motrice che ha spinto gli esploratori lungo gli anni, una forza che Frank Smythe è riuscito a descrivere con grande lucidità. Nel suo The Spirit of the Hills scrive: «La forza che guida gli uomini verso la cima delle montagne più alte è la stessa che l'ha sollevato dalla condizione ferina. Non è stato messo al mondo per la mera sopravvivenza; è stato creato per cercare amore e felicità, per esprimersi e creare...».
Oltre a queste due, c'è una terza motivazione di natura più pratica che ha spinto gli esploratori a partire. Una motivazione condivisa da Marco Polo, Colombo e Thor Heyerdahl: il desiderio di dimostrare una teoria con l'esperienza. Colombo credeva che la terra fosse sferica e per provarlo tentò di navigarci attorno. Anche Maurice Wilson aveva una teoria da dimostrare, e per farlo tentò di scalare l'Everest. Per capire la teoria di Wilson dobbiamo tornare nella Foresta Nera dove, nell'autunno del 1932, si stava ristabilendo dopo il lungo digiuno. Sia le lettere sia i diari confermano come si sentisse rinnovato, fisicamente e mentalmente. \ Wilson era certamente un perfezionista e un idealista, ma era dotato di non poca sagacia e buon senso e, come molti uomini dello Yorkshire, era prima di tutto un uomo d'azione. Aveva visto altri curarsi con il digiuno e la fede; era stato curato allo stesso modo. Gli sembrava di aver trovato la panacea per tutti i mali del mondo. Sapeva bene, però, che il mondo non avrebbe accettato con facilità un tale rimedio. Era troppo poco ortodosso. Avrebbe potuto gridare la sua nuova fede sulle colonne di un giornale, da un pulpito, o da un podio: il mondo l'avrebbe etichettato come eccentrico. L'unico modo per ottenere ascolto era fornire a tutti una dimostrazione schiacciante e sensazionale degli effetti pratici della sue convinzioni.
Proprio mentre si stava arrovellando su questo punto gli si posarono gli occhi, in un caffè di Friburgo, su un trafiletto che riportava la spedizione sull'Everest del 1924. Lesse degli sherpa e degli yak che avevano trasportato il complesso sistema di equipaggiamento fino alla base della montagna; lesse dei pericoli e delle difficoltà apparentemente insormontabili che gli alpinisti avevano affrontato. Si chiese: credi veramente che il digiuno e la fede in Dio possano superare qualunque prova? Non ebbe tempo di finire la domanda. Subito si rese conto che la sua fede era pura e assoluta, e capì quale fosse il suo compito.
Tornò in Inghilterra e si mise subito in contatto con Enid e Leonard Evans. Erano felici di vederlo in salute e di buon umore. Festeggiarono il suo ritorno con una cena da Mayfair e poi in un night club. Tornarono nella casa di Maida Vale solo nelle prime ore del mattino, ma nessuno aveva sonno. Wilson sembrava anzi fremere di un'eccitazione a malapena celata che subito contagiò gli amici. Fu verso le quattro del mattino che Wilson espresse per la prima volta, con poche inequivocabili parole, la teoria bizzarra e tragica che gli sarebbe costata la vita \.
Gli Evans lo squadrarono con un misto di orrore e fascino. 

Maurice Wilson si alzò in piedi. «Esatto», disse molto lentamente. «Scalerò l'Everest da solo».

 di Dennis Roberts