di Giovanni Ragazzoni
Alle 15,47 il direttissimo fece il suo ingresso alla stazione di Novara. «Strano», disse uno dei viaggiatori infilandosi il soprabito, «in perfetto orario; non succede quasi mai».
La gente aveva cominciato a scendere frettolosa e preferì lasciarla passare per il timore d’essere urtato. L’età avanzata gl’impediva una normale deambulazione. Per fortuna non aveva bagaglio: solo il bastone che gli serviva per mantenere l’equilibrio reso incerto dall’artrosi cervicale.
Si guardò attorno quasi a voler ricordare chissà cosa e rimase lì fermo sul marciapiede a pensare quali cambiamenti si fossero verificati in quegli ultimi tempi.
Ah, ecco: non c’era più la vecchia campata di ghisa che gli destava ogni volta reminiscenze risorgimentali e nemmeno il vecchio buffet da cui, sul mezzogiorno, usciva il profumo del risotto alla milanese; e nemmeno l’anziano facchino guercio che ogni volta esclamava: «Portabagagli, facchino, pronti, son qua. Mi dia tutto, niente paura; è ancora presto per l’accelerato di Arona». Era alto e curvo, si caricava sulle spalle borse e valigie servendosi di una grossa cinghia di cuoio e arrancava in avanti facendo brillare nel sole la patacca di ottone che risaltava lucidissima sulla blusa a righini bianchi e blu.
«Accelerato per Borgomanero, Omegna, Domodossola è in sosta al binario cinque». Sì, anche allora partiva dallo stesso marciapiede, soltanto non c’era l’altoparlante e lo si chiamava omnibus. Alcuni, con dispregio, lo avevano battezzato “il trenino del latte” per le sue lunghe soste a ogni stazione. Adesso è salito di grado. Accelerato: quasi un aspirante diretto.
Si avviò zoppicando verso il binario cinque, oltre il quale si vedevano vagoni merci immobili fra la sterpaglia, un lungo muro grigio, case ancora più grigie, una gru arrugginita e due sparute galline che becchettavano fra le rotaie.
Il treno – tre vetture e un vagone merci – era ancora di quelli sui primi degli anni trenta, ma la cosa che maggiormente lo colpì fu la locomotiva: un modello antiquato, nero, col fumaiolo alto, l’espressione funerea, perfino inquietante. Usciva del fumo bianco che si confondeva con la nebbia, che aveva cominciato a formarsi come succede in pianura al mese di novembre, quando già le giornate si accorciano e presto vien buio.
Un’altra cosa che lo meravigliò fu d’esser potuto salire senza fatica alcuna, con leggerezza, senza l’aiuto del bastone, proprio come vi saliva da giovane quando tornava a Orta per le feste di Natale o per le vacanze estive.
Dentro non c’era nessuno: gli scompartimenti, tutti vuoti, avevano una luce fioca simile a un’alba invernale.
Ma perché non si vedevano i soliti pendolari, i ragazzi delle scuole, le massaie, quei cinque o sei impiegati?
Guardò fuori dal finestrino e anche lì, sul marciapiede, non vide nessuno.
«Che abbia sbagliato treno? Che mi sia confuso, che non abbia udito bene l’annuncio dell’altoparlante?»
Senza alcun rumore, senza un segnale, senza una scossa, il treno si mise in moto come se scivolasse su rotaie di velluto; il silenzio lo avvolgeva e fuori la campagna appena si riusciva a distinguerla, immersa com’era nella cortina di nebbia ora densa, ora sfilacciata in frange lattescenti.
Il vetro del finestrino rispecchiava il suo volto.
«Ma guarda», disse fra sé e sé, «mi vedo la pelle più liscia, più soda, più vivido lo sguardo, i capelli più folti, scomparse anche le rughe. Ma dev’essere uno scherzo del vetro, un gioco di riflessi».
Si mise a passeggiare su e giù per il corridoio e, con sua somma sorpresa, si accorse che riusciva a camminare con un’insolita speditezza e anche le articolazioni gli sembravano più elastiche, più sciolte.
«Senz’altro dev’essere quel calice di vino che ho bevuto poco fa al bar della stazione».
Guardò in tutti gli altri scompartimenti: vuoti.
Il treno continuava a correre come sospeso nell’aria e senza la benché minima scossa si fermò a Vignale. Da una cascina fasciata di bruma una voce interruppe il silenzio: «Casa Savoia conosce la via dell’esilio, ma non quella del disonore». Poi il treno riprese la sua corsa silenziosa e uniforme. All’improvviso, dal fondo del corridoio, vide venire avanti il controllore; portava ancora il berretto alto a righe d’oro, l’uniforme blu scuro, la tenaglietta in una mano, l’espressione severa e rigorosa dell’impiegato che sta compiendo il proprio dovere. I suoi occhi riflettevano gli alberi spogli, le rogge color piombo, le siepi bianche di brina.
«Prego biglietto, signore... Orta-Miasino? Ma lei vuole proprio andare a Orta-Miasino?»
«Perché, cosa c’è a Orta? E mi dica: non vedo nessun viaggiatore, come mai?»
Fece un gesto vago e si allontanò scomparendo in fondo al corridoio. Il treno si arrestò in piena campagna. Filari di pioppi, la risaia, prati a perdita d’occhio, stormi di cornacchie; sul fondo le montagne velate dalla foschia.
Inaspettatamente si misero a suonare le campane di Santa Maria Assunta e poco dopo le accompagnarono a distesa quelle della riviera: dell’isola, di Pella, di Alzo, di San Maurizio.
Dal portale spalancato della chiesa scendeva una folla di ragazze e ragazzi che avanzavano a passo di danza in abiti variopinti e leggeri, i volti raggianti di una felicità che sembrava innalzarsi oltre l’umana natura e tutti cantavano e il canto si andava ampliando sull’acqua dove barche festose, pavesate di fiori, venivano avanti gremite di giovani a incontrare quelli che ora assiepavano la piazza.
Il coro, sempre più incalzante, saliva maestoso verso il cielo di un azzurro intenso e verso l’immensa luna che sovrastava solenne.
«Magnificat anima mea Dominum».
A stento riuscì a ricostruire, in quella felice gioventù, le fattezze di coloro che aveva intravisto nelle due fugaci processioni.
Ma quanto bella e gentile la giovinetta dai lunghi capelli chiamata Guglielma, quanto raffinato e snello il fornaio grossetano e quale nobile tratto nella flessuosa figura del pescatore Luisin e a tutti, senza distinzione alcuna, brillava l’anima negli occhi e tutti, a un certo momento, rimasero assorti ad ascoltare la musica delle stelle.
Dal gruppo si staccò una ragazza dal fluttuante abito azzurro e i capelli mossi dallo zefiro di quella dolce tiepida notte.
«Vieni, ti porto a vedere i pesci d’oro...»
Non l’aveva mai vista prima, eppure il sorriso, le sembianze, il timbro e la voce gli avevano evocato ombre e parvenze di attimi che non sapeva rammentare con precisione, se non come una vaga sensazione di serenità e di sicurezza. La sua mano vibrava lievissima come ala di passero trasmettendogli il fluido di una gioia sconosciuta.
Scesero alla riva. Dal lago si espandeva una luminosità iridescente ed ella si chinò immergendo le dita nell’acqua e formando dei cerchi concentrici. Subito dal fondo salì melodioso il suono di un carillon accompagnato dal guizzare di innumerevoli pesci dalle squame dorate e dagli occhi di zaffiro. Avevano un’espressione gaia e agitavano le pinne fosforescenti in segno di saluto; accennarono alcuni passi di danza e poi ritornarono sul fondo con il motivo del carillon che si andava
La gente aveva cominciato a scendere frettolosa e preferì lasciarla passare per il timore d’essere urtato. L’età avanzata gl’impediva una normale deambulazione. Per fortuna non aveva bagaglio: solo il bastone che gli serviva per mantenere l’equilibrio reso incerto dall’artrosi cervicale.
Si guardò attorno quasi a voler ricordare chissà cosa e rimase lì fermo sul marciapiede a pensare quali cambiamenti si fossero verificati in quegli ultimi tempi.
Ah, ecco: non c’era più la vecchia campata di ghisa che gli destava ogni volta reminiscenze risorgimentali e nemmeno il vecchio buffet da cui, sul mezzogiorno, usciva il profumo del risotto alla milanese; e nemmeno l’anziano facchino guercio che ogni volta esclamava: «Portabagagli, facchino, pronti, son qua. Mi dia tutto, niente paura; è ancora presto per l’accelerato di Arona». Era alto e curvo, si caricava sulle spalle borse e valigie servendosi di una grossa cinghia di cuoio e arrancava in avanti facendo brillare nel sole la patacca di ottone che risaltava lucidissima sulla blusa a righini bianchi e blu.
«Accelerato per Borgomanero, Omegna, Domodossola è in sosta al binario cinque». Sì, anche allora partiva dallo stesso marciapiede, soltanto non c’era l’altoparlante e lo si chiamava omnibus. Alcuni, con dispregio, lo avevano battezzato “il trenino del latte” per le sue lunghe soste a ogni stazione. Adesso è salito di grado. Accelerato: quasi un aspirante diretto.
Si avviò zoppicando verso il binario cinque, oltre il quale si vedevano vagoni merci immobili fra la sterpaglia, un lungo muro grigio, case ancora più grigie, una gru arrugginita e due sparute galline che becchettavano fra le rotaie.
Il treno – tre vetture e un vagone merci – era ancora di quelli sui primi degli anni trenta, ma la cosa che maggiormente lo colpì fu la locomotiva: un modello antiquato, nero, col fumaiolo alto, l’espressione funerea, perfino inquietante. Usciva del fumo bianco che si confondeva con la nebbia, che aveva cominciato a formarsi come succede in pianura al mese di novembre, quando già le giornate si accorciano e presto vien buio.
Un’altra cosa che lo meravigliò fu d’esser potuto salire senza fatica alcuna, con leggerezza, senza l’aiuto del bastone, proprio come vi saliva da giovane quando tornava a Orta per le feste di Natale o per le vacanze estive.
Dentro non c’era nessuno: gli scompartimenti, tutti vuoti, avevano una luce fioca simile a un’alba invernale.
Ma perché non si vedevano i soliti pendolari, i ragazzi delle scuole, le massaie, quei cinque o sei impiegati?
Guardò fuori dal finestrino e anche lì, sul marciapiede, non vide nessuno.
«Che abbia sbagliato treno? Che mi sia confuso, che non abbia udito bene l’annuncio dell’altoparlante?»
Senza alcun rumore, senza un segnale, senza una scossa, il treno si mise in moto come se scivolasse su rotaie di velluto; il silenzio lo avvolgeva e fuori la campagna appena si riusciva a distinguerla, immersa com’era nella cortina di nebbia ora densa, ora sfilacciata in frange lattescenti.
Il vetro del finestrino rispecchiava il suo volto.
«Ma guarda», disse fra sé e sé, «mi vedo la pelle più liscia, più soda, più vivido lo sguardo, i capelli più folti, scomparse anche le rughe. Ma dev’essere uno scherzo del vetro, un gioco di riflessi».
Si mise a passeggiare su e giù per il corridoio e, con sua somma sorpresa, si accorse che riusciva a camminare con un’insolita speditezza e anche le articolazioni gli sembravano più elastiche, più sciolte.
«Senz’altro dev’essere quel calice di vino che ho bevuto poco fa al bar della stazione».
Guardò in tutti gli altri scompartimenti: vuoti.
Il treno continuava a correre come sospeso nell’aria e senza la benché minima scossa si fermò a Vignale. Da una cascina fasciata di bruma una voce interruppe il silenzio: «Casa Savoia conosce la via dell’esilio, ma non quella del disonore». Poi il treno riprese la sua corsa silenziosa e uniforme. All’improvviso, dal fondo del corridoio, vide venire avanti il controllore; portava ancora il berretto alto a righe d’oro, l’uniforme blu scuro, la tenaglietta in una mano, l’espressione severa e rigorosa dell’impiegato che sta compiendo il proprio dovere. I suoi occhi riflettevano gli alberi spogli, le rogge color piombo, le siepi bianche di brina.
«Prego biglietto, signore... Orta-Miasino? Ma lei vuole proprio andare a Orta-Miasino?»
«Perché, cosa c’è a Orta? E mi dica: non vedo nessun viaggiatore, come mai?»
Fece un gesto vago e si allontanò scomparendo in fondo al corridoio. Il treno si arrestò in piena campagna. Filari di pioppi, la risaia, prati a perdita d’occhio, stormi di cornacchie; sul fondo le montagne velate dalla foschia.
Inaspettatamente si misero a suonare le campane di Santa Maria Assunta e poco dopo le accompagnarono a distesa quelle della riviera: dell’isola, di Pella, di Alzo, di San Maurizio.
Dal portale spalancato della chiesa scendeva una folla di ragazze e ragazzi che avanzavano a passo di danza in abiti variopinti e leggeri, i volti raggianti di una felicità che sembrava innalzarsi oltre l’umana natura e tutti cantavano e il canto si andava ampliando sull’acqua dove barche festose, pavesate di fiori, venivano avanti gremite di giovani a incontrare quelli che ora assiepavano la piazza.
Il coro, sempre più incalzante, saliva maestoso verso il cielo di un azzurro intenso e verso l’immensa luna che sovrastava solenne.
«Magnificat anima mea Dominum».
A stento riuscì a ricostruire, in quella felice gioventù, le fattezze di coloro che aveva intravisto nelle due fugaci processioni.
Ma quanto bella e gentile la giovinetta dai lunghi capelli chiamata Guglielma, quanto raffinato e snello il fornaio grossetano e quale nobile tratto nella flessuosa figura del pescatore Luisin e a tutti, senza distinzione alcuna, brillava l’anima negli occhi e tutti, a un certo momento, rimasero assorti ad ascoltare la musica delle stelle.
Dal gruppo si staccò una ragazza dal fluttuante abito azzurro e i capelli mossi dallo zefiro di quella dolce tiepida notte.
«Vieni, ti porto a vedere i pesci d’oro...»
Non l’aveva mai vista prima, eppure il sorriso, le sembianze, il timbro e la voce gli avevano evocato ombre e parvenze di attimi che non sapeva rammentare con precisione, se non come una vaga sensazione di serenità e di sicurezza. La sua mano vibrava lievissima come ala di passero trasmettendogli il fluido di una gioia sconosciuta.
Scesero alla riva. Dal lago si espandeva una luminosità iridescente ed ella si chinò immergendo le dita nell’acqua e formando dei cerchi concentrici. Subito dal fondo salì melodioso il suono di un carillon accompagnato dal guizzare di innumerevoli pesci dalle squame dorate e dagli occhi di zaffiro. Avevano un’espressione gaia e agitavano le pinne fosforescenti in segno di saluto; accennarono alcuni passi di danza e poi ritornarono sul fondo con il motivo del carillon che si andava
radatamente spegnendo fino a tacere del tutto.
Allora, la ragazza dalla veste azzurra lo fissò con i suoi occhi intensi e brillanti: «Adesso devo andare anch’io: vado con tutti gli altri. Guarda: stanno già cominciando a salire, ma sappi che ti aspetto... ti aspetto...»
Prese l’abbrivo, scivolò sulle onde e si alzò in volo a raggiungere la schiera di quelle creature evanescenti che saliva simile a un fulgente arcobaleno. Per alcuni istanti li vide ascendere sempre più in alto finché si dileguarono dietro un sipario di nubi argentate. L’ampia luminosità della notte lunare, il profumo delle rose, la mite temperatura avevano ora ceduto il posto a un cielo plumbeo e basso; impetuosa soffiava la tramontana che alzava onde livide dalla cresta infuriata e biancastra. A un tratto si ritrovò il suo bastone fra le mani e a stento riuscì ad alzarsi dalla panchina: il logorio degli anni, l’ansia, l’apprensione, l’incertezza gli crollarono addosso e mai, come in quel momento, aveva avvertito tutta la sua indifesa fragilità. Raggiunse zoppicando il centro della piazza dove già iniziava la vita d’ogni giorno: finestre che si aprivano, il cigolio dei portoncini, lo scuolabus che raccoglieva i bambini dell’asilo, massaie infreddolite curve nel vento. Dal bar sotto il portico usciva la musica in sordina di un juke-box insieme all’aroma dell’espresso.
Prese l’abbrivo, scivolò sulle onde e si alzò in volo a raggiungere la schiera di quelle creature evanescenti che saliva simile a un fulgente arcobaleno. Per alcuni istanti li vide ascendere sempre più in alto finché si dileguarono dietro un sipario di nubi argentate. L’ampia luminosità della notte lunare, il profumo delle rose, la mite temperatura avevano ora ceduto il posto a un cielo plumbeo e basso; impetuosa soffiava la tramontana che alzava onde livide dalla cresta infuriata e biancastra. A un tratto si ritrovò il suo bastone fra le mani e a stento riuscì ad alzarsi dalla panchina: il logorio degli anni, l’ansia, l’apprensione, l’incertezza gli crollarono addosso e mai, come in quel momento, aveva avvertito tutta la sua indifesa fragilità. Raggiunse zoppicando il centro della piazza dove già iniziava la vita d’ogni giorno: finestre che si aprivano, il cigolio dei portoncini, lo scuolabus che raccoglieva i bambini dell’asilo, massaie infreddolite curve nel vento. Dal bar sotto il portico usciva la musica in sordina di un juke-box insieme all’aroma dell’espresso.
Testo tratto da "I pesci d'oro di Orta" di Giovanni Ragazzoni, Interlinea edizioni, pp. 96 , Lire 25.000.