La prima volta che ho messo piede a Yangpachen ho pensato di essere finita nel posto più brutto della terra.
E’ facile arrivare a Yangpachen: poco più di un’ora di auto sulla strada asfaltata che da Lhasa risale la larga valle di Tolung, in direzione nord.
Rari villaggi tibetani e mandrie di yak punteggiano il paesaggio di montagne spoglie, mentre la massicciata della nuova ferrovia occupa costantemente il primo piano. Poi di colpo la valle si fa stretta, la strada serpeggia tra pareti di roccia, e dietro l’ultima curva ecco sbucare la magica mole del Nyenchen Tanglha, con i suoi "panettoni" di ghiaccio che arrivano a settemila metri.
E Yangpachen sta proprio lì sotto, in un pianoro alto quasi come la punta del Cervino, nel mezzo di un incrocio stradale e geografico: a nordest la strada continua verso la regione cinese del Qinghai attraverso distese sconfinate di nulla, mentre verso ovest si raggiunge, dopo ore di sterrata, la sabbiosa valle del Brahmaputra.
Ma Yangpachen è soprattutto un incrocio culturale, il punto di incontro e scontro di due civiltà che vivono in uno spaziotempo differente. Da una parte l’antica e lenta cultura tibetana, con la sua spiritualità profonda legata alla natura, un frammento di medioevo miracolosamente sopravvissuto mille anni. Dall’altra la cultura della Cina moderna, arrogante e veloce, che tutto distrugge e tutto costruisce. E’ la guerra tra un mondo di montagne silenziose abitate da spiriti e un mondo di cemento e denaro.
Yangpachen è una strada polverosa con due file di case ai lati, piccole case bianche in stile tibetano, con finestre dagli infissi dipinti di fiori e ornate da festoni che ondeggiano al vento. Ma tra le bucoliche casette, grossi parallelepipedi di cemento, già cadenti anche se appena costruiti, ricordano al viaggiatore che i cinesi sono passati di lì e hanno cambiato il mondo: ecco la gigantesca antenna della Telecom China, l’ufficio postale, la scuola, la centrale elettrica, ecco insegne dagli ideogrammi sgargianti, fili spinati, detriti e spazzatura.
Tutte queste innovazioni, unite a una serie di circostanze volute un po’ dalla scienza e un po’ dal caso, hanno fatto nascere in questo improbabile luogo un osservatorio di astrofisica, dove da alcuni anni un’equipe di scienziati italiani e cinesi studia i raggi cosmici.
Quando racconto che lavoro con i raggi cosmici, la maggior parte della gente mi guarda sgranando gli occhi come se parlassi dei marziani. Eppure i raggi cosmici sono qui con noi, dappertutto, comuni più dell’aria che respiriamo. Ci avvolgono, ci colpiscono, ci martellano come una doccia che non dà tregua. Proiettili celesti, minuscole particelle che arrivano da astri lontanissimi, nuclei di atomi sparati alla velocità della luce da infuocate fucine cosmiche. Attraversano lo spazio gelido e buio dell’universo, per pioverci in testa come un violento acquazzone, uno scroscio continuo di goccioline infinitesime, invisibili ed impalpabili.
Si studiano molto meglio in alta montagna, perché lassù sono meno schermati dall’atmosfera, che li frena e in parte li assorbe come un filtro.
Il laboratorio di Yangpachen è un enorme capannone dal tetto azzurro. Lì dentro i fisici hanno costruito un grande rivelatore di raggi cosmici. Tra i fisici e il Tibet non c’è alcun legame. Il capannone è un ritaglio di tecnologia occidentale caduto dal cielo in mezzo alle steppe tibetane, piovuto lì “grazie” all’occupazione cinese. Quando si è chiusi là dentro, tra monitor, pannelli di elettronica e chilometri di cavi, ci si può scordare di essere in Tibet.
Sono già passati alcuni anni dalla prima volta in cui un taxi sgangherato mi ha lasciata sulla strada di Yangpachen. Era il 2001. Appena chiusa la portiera alle spalle, ho scorto due donne inginocchiate sul bordo della strada. Erano chine a lavare i panni in un fossato. L’acqua scivolava tra barattoli arrugginiti e resti di scarpe rotte. A pochi metri di distanza, la carcassa di un cane sorrideva al cielo. Benvenuta in Tibet, sembrava dirmi.
Miseria e desolazione. Era questo il mitico e sospirato Tibet ?
Da allora sono tornata lassù molte volte, ma sono bastati pochi giorni a seppellire per sempre la prima sgradevole impressione.
E’ difficile analizzare i sentimenti, anche se a volte ci provo, spinta dal desiderio e dalla presunzione degli scienziati di capire a fondo ogni cosa. Ma i meandri dell’anima sono ben più complessi delle traiettorie dei raggi cosmici nella galassia. Il Tibet mi ha fatto sperimentare una indefinita mescolanza di sensazioni. Sconforto, meraviglia, perplessità, stupore, commozione, incanto. Hanno partecipato tutti: il cielo, la terra, la luce, le montagne, gli uomini. Sensazioni a volte contrapposte, intricate, ma sempre acute e penetranti.
Con il tempo ho cercato di capire e di approfondire cosa vedevo. Dai libri e dall’osservazione ho imparato qualcosa, quel che è possibile da un mondo così diverso dal mio. L’amore e l’interesse sono cresciuti a ogni viaggio, a ogni incontro, a ogni scoperta. Sono diventati così grandi che mi è venuta voglia di raccontarli a qualcuno.
Ho acceso il computer e ho iniziato a scrivere.
E’ facile arrivare a Yangpachen: poco più di un’ora di auto sulla strada asfaltata che da Lhasa risale la larga valle di Tolung, in direzione nord.
Rari villaggi tibetani e mandrie di yak punteggiano il paesaggio di montagne spoglie, mentre la massicciata della nuova ferrovia occupa costantemente il primo piano. Poi di colpo la valle si fa stretta, la strada serpeggia tra pareti di roccia, e dietro l’ultima curva ecco sbucare la magica mole del Nyenchen Tanglha, con i suoi "panettoni" di ghiaccio che arrivano a settemila metri.
E Yangpachen sta proprio lì sotto, in un pianoro alto quasi come la punta del Cervino, nel mezzo di un incrocio stradale e geografico: a nordest la strada continua verso la regione cinese del Qinghai attraverso distese sconfinate di nulla, mentre verso ovest si raggiunge, dopo ore di sterrata, la sabbiosa valle del Brahmaputra.
Ma Yangpachen è soprattutto un incrocio culturale, il punto di incontro e scontro di due civiltà che vivono in uno spaziotempo differente. Da una parte l’antica e lenta cultura tibetana, con la sua spiritualità profonda legata alla natura, un frammento di medioevo miracolosamente sopravvissuto mille anni. Dall’altra la cultura della Cina moderna, arrogante e veloce, che tutto distrugge e tutto costruisce. E’ la guerra tra un mondo di montagne silenziose abitate da spiriti e un mondo di cemento e denaro.
Yangpachen è una strada polverosa con due file di case ai lati, piccole case bianche in stile tibetano, con finestre dagli infissi dipinti di fiori e ornate da festoni che ondeggiano al vento. Ma tra le bucoliche casette, grossi parallelepipedi di cemento, già cadenti anche se appena costruiti, ricordano al viaggiatore che i cinesi sono passati di lì e hanno cambiato il mondo: ecco la gigantesca antenna della Telecom China, l’ufficio postale, la scuola, la centrale elettrica, ecco insegne dagli ideogrammi sgargianti, fili spinati, detriti e spazzatura.
Tutte queste innovazioni, unite a una serie di circostanze volute un po’ dalla scienza e un po’ dal caso, hanno fatto nascere in questo improbabile luogo un osservatorio di astrofisica, dove da alcuni anni un’equipe di scienziati italiani e cinesi studia i raggi cosmici.
Quando racconto che lavoro con i raggi cosmici, la maggior parte della gente mi guarda sgranando gli occhi come se parlassi dei marziani. Eppure i raggi cosmici sono qui con noi, dappertutto, comuni più dell’aria che respiriamo. Ci avvolgono, ci colpiscono, ci martellano come una doccia che non dà tregua. Proiettili celesti, minuscole particelle che arrivano da astri lontanissimi, nuclei di atomi sparati alla velocità della luce da infuocate fucine cosmiche. Attraversano lo spazio gelido e buio dell’universo, per pioverci in testa come un violento acquazzone, uno scroscio continuo di goccioline infinitesime, invisibili ed impalpabili.
Si studiano molto meglio in alta montagna, perché lassù sono meno schermati dall’atmosfera, che li frena e in parte li assorbe come un filtro.
Il laboratorio di Yangpachen è un enorme capannone dal tetto azzurro. Lì dentro i fisici hanno costruito un grande rivelatore di raggi cosmici. Tra i fisici e il Tibet non c’è alcun legame. Il capannone è un ritaglio di tecnologia occidentale caduto dal cielo in mezzo alle steppe tibetane, piovuto lì “grazie” all’occupazione cinese. Quando si è chiusi là dentro, tra monitor, pannelli di elettronica e chilometri di cavi, ci si può scordare di essere in Tibet.
Sono già passati alcuni anni dalla prima volta in cui un taxi sgangherato mi ha lasciata sulla strada di Yangpachen. Era il 2001. Appena chiusa la portiera alle spalle, ho scorto due donne inginocchiate sul bordo della strada. Erano chine a lavare i panni in un fossato. L’acqua scivolava tra barattoli arrugginiti e resti di scarpe rotte. A pochi metri di distanza, la carcassa di un cane sorrideva al cielo. Benvenuta in Tibet, sembrava dirmi.
Miseria e desolazione. Era questo il mitico e sospirato Tibet ?
Da allora sono tornata lassù molte volte, ma sono bastati pochi giorni a seppellire per sempre la prima sgradevole impressione.
E’ difficile analizzare i sentimenti, anche se a volte ci provo, spinta dal desiderio e dalla presunzione degli scienziati di capire a fondo ogni cosa. Ma i meandri dell’anima sono ben più complessi delle traiettorie dei raggi cosmici nella galassia. Il Tibet mi ha fatto sperimentare una indefinita mescolanza di sensazioni. Sconforto, meraviglia, perplessità, stupore, commozione, incanto. Hanno partecipato tutti: il cielo, la terra, la luce, le montagne, gli uomini. Sensazioni a volte contrapposte, intricate, ma sempre acute e penetranti.
Con il tempo ho cercato di capire e di approfondire cosa vedevo. Dai libri e dall’osservazione ho imparato qualcosa, quel che è possibile da un mondo così diverso dal mio. L’amore e l’interesse sono cresciuti a ogni viaggio, a ogni incontro, a ogni scoperta. Sono diventati così grandi che mi è venuta voglia di raccontarli a qualcuno.
Ho acceso il computer e ho iniziato a scrivere.
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